giovedì 26 settembre 2013

Suvignano, storia di una vittoria


11 settembre: è ufficiale, la tenuta di Suvignano non sarà messa all'asta! Ce l'abbiamo fatta, tutti insieme, dal primo all'ultimo, dal presidente della regione Rossi al nostro piccolo gruppo del presidio di Libera Pisa, complimenti a tutti, è una grande vittoria!

Ma ripercorriamo un po' le tappe principali che hanno portato a questo risultato: intanto, per chi non ne sa niente, la tenuta di Suvignano è il più grosso bene confiscato alla mafia di tutto il Centro-Nord italiano. Situato nel comune di Monteroni d’Arbia, nel cuore delle colline toscane, a circa 13 km da Siena, si tratta di 730 ettari dalle enormi potenzialità economiche e sociali, sequestrato alla mafia definitivamente nel 2007, ma è bello ricordare che il primo sequestro avvenne nel lontano 1983 grazie a Giovanni Falcone. In questi anni è stato elaborato un piano di valorizzazione, che è stato proposto lo scorso gennaio dalla regione Toscana al Ministero degli Interni. Ma il 25 luglio di quest'anno, con una delibera tanto improvvisa quanto silenziosa e nascosta, era stata proposta la messa in vendita di questa tenuta.

Si può capire, sarebbe da stupidi non farlo, il momento di fragilità economica del Paese e il fatto che l'apporto di denaro liquido (si parla di 22 milioni di euro) possa costituire una priorità. Ma insomma, è chiaro a tutti che non è su queste cose, che magari sembrano più vulnerabili e più in qualche modo attaccabili agli occhi di chi ci governa, che deve passare una qualsiasi manovra per racimolare denaro. E infatti, per fortuna, c'è stata una sorta di mobilitazione nazionale, che ha visto partecipi in primis la regione Toscana, col suo presidente Enrico Rossi, tutti i sindaci delle zone limitrofe a Suvignano, varie associazioni, qualche parlamentare e  qualche personalità di spicco nella lotta alla mafia. Tutti ad organizzare una degna risposta, o un degno sdegno di fronte a tale ingiustizia. Tutto ciò si è concretamente materializzato in una grossa manifestazione che si è tenuta domenica 8 settembre proprio nel cuore della tenuta di Suvignano. Manifestazione alla quale ha partecipato in maniera qualitativamente e quantitativamente rilevante anche il presidio di Libera Pisa “G. Siani”. Eravamo là, con altre mille persone, partecipi e parte di quel clima che era allo stesso tempo sereno e fortemente determinato. Abbiamo ascoltato le parole del sindaco di Monteroni d'Arbia, comune a cui appartiene la tenuta, quelle di Franco La Torre, figlio di Pio al quale dobbiamo la legge sui beni confiscati, quelle dell'assessore alla presidenza della Toscana, quelle contenute nella lettera appassionata e forte di Don Luigi Ciotti scritta per l'occasione. Tutte parole che racchiudevano il desiderio di tenersi stretto quel grande bene confiscato alla mafia, non perché si deve, ma perché si vuole; perché ci sono le opportunità di sfruttarlo in maniera adeguata, affinché sia fonte di lavoro per i giovani, sia centro sociale, sia un centro di diffusionedi cultura e legalità.

Le motivazione erano indubbiamente forti, e l'adeguata mobilitazione ha costretto il governo a ritirare le decisioni intraprese, rendendo entusiasti i tantissimi che si erano dati da fare per raggiungere tale obiettivo.

Con la più viva speranza che presto potremo assaggiare gli spaghetti provenienti da Suvignano.

Luca Marchetti



giovedì 19 settembre 2013

Giancarlo Siani, ventotto anni dopo

Quando il 23 Settembre del 1985 viene ammazzato nella sua auto a Piazza San Leonardo al Vomero, Giancarlo Siani ha da poco compiuto 26 anni. 
Otto colpi di pistola sparati da tre killer al servizio della camorra stroncano la vita di un ragazzo che voleva solo fare il giornalista. 
Giancarlo scriveva per “Il Mattino” di Napoli ed era inviato su un fronte di guerra: Torre Annunziata. 

Siamo agli inizi degli anni Ottanta e i clan della camorra sono in lotta per spartirsi il territorio.
769 morti ammazzati dal 1979 al 1984 segnano un periodo di guerra senza precedenti in cui nei quartieri e per le strade la legge è dettata dai kalashnikov e dai fucili a canne mozze. 
A fronteggiarsi sono due veri e propri eserciti: da una parte la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e dall'altra la Nuova Famiglia, alla cui guida c'è il clan dei Nuvoletta. 
I Nuvoletta, determinati ad eliminare definitivamente Cutolo, si alleano con l'emergente boss di Torre Annunziata, Valentino Gionta. 
In questo clima, Torre Annunziata assume un ruolo chiave per definire la geografia della criminalità organizzata campana. 
Attraverso le sue indagini, Siani viene a conoscenza di particolari scottanti. In un articolo del 10 giugno 1985 scrive:”Potrebbe cambiare la geografia della camorra dopo l'arresto del super latitante Valentino Gionta. Già da tempo, negli ambienti della mala organizzata e nello stesso clan dei Valentini di Torre Annunziata si temeva che il boss venisse «scaricato», ucciso o arrestato. [...] La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di Nuova famiglia, i Bardellino”. 
Lorenzo Nuvoletta, referente in Campania di Totò Riina, si era venduto l'alleato Gionta, attraverso una soffiata ai carabinieri, per evitare una guerra interna con un altro esponente della Nuova Famiglia, Antonio Bardellino. 
Le rivelazioni emerse da quell'articolo saranno per Giancarlo la sua condanna a morte. 

Dal 1960 ad oggi sono 11 i giornalisti italiani uccisi perché impegnati in prima linea sul fronte delle mafie e del terrorismo. Nel nostro Paese, negli ultimi sei anni, 1400 cronisti sono stati oggetto di minacce, intimidazioni e abusi. I dati forniti da Ossigeno per l'informazione parlano chiaro: nessun altro Paese dell'Eurozona ha avuto tanti giornalisti uccisi e tanti giornalisti minacciati. 
Riccardo Orioles, nel numero di settembre de “I Siciliani giovani” scrive:”Fare giornalismo e fare lotta antimafia, oggi come ieri, è possibile solo a costo di rinunciare a una vita “normale”. Non tanto per i rischi, che liberamente si accettano, ma per l'estromissione dai principali circuiti politici e professionali. Non è un prezzo troppo alto, considerati gli obiettivi. Ma il prezzo è ancora tale, ed è bene che non ci siano equivoci su di esso”. 

Il ricordo di Giancarlo Siani e dei suoi colleghi non deve essere un esercizio retorico da mettere in atto una volta all'anno. Ventotto anni non sono niente se sappiamo riviverli ogni giorno.

Marika Pezzolla

mercoledì 18 settembre 2013

A TU PER TU CON...LA SENATRICE LAURA PUPPATO (PD)


Durante l’ultima Festa Democratica di Riglione, la Senatrice Laura Puppato (PD) risponde alle nostre domande per “LIBERA la Voce”.

(N.B.) Durante questa estate il tema centrale del panorama politico sono stati i guai giudiziari di Berlusconi. Lei, da senatrice di un partito alleato con il PdL, non pensa che debba essere primario il ruolo della legalità anche e soprattutto in Parlamento?

(L.P.) Le diverse funzioni dei diversi poteri dello Stato non possono essere in discussione perché questo significherebbe la cancellazione dei diritti costituzionali e la cancellazione dell’Italia dai paesi democratici, quindi il tema  della legalità è uno dei temi fondamentali. Non soltanto è importante recuperare una rappresentanza politica che sia in grado di non essere inquinata dal dubbio, ma il discorso deve essere una questione che ha a che fare con il sistema giudiziario che ha reso difficile la vita agli onesti in questo paese; la corruzione infatti trova una sua ragion d’essere proprio nella lentezza del sistema giudiziario, troppo lento a dare il verdetto finale. Guai se scivoliamo indietro dimenticandoci di tenere la barra dritta sul tema della legalità.

(N.B.) E’ dal 1999 che l’Europa ci chiede una legge anticorruzione. Come pensate di risolvere, da un punto di vista legislativo, con questi alleati, il problema che attanaglia il nostro paese per un gettito totale di decine di miliardi all’anno?

(L.P.) Nella domanda percepisco del dubbio e questo è legittimo perché si percepisce, inutile negarlo, un clima di sfiducia dal momento che con questi partner parlare di legalità e giustizia è molto difficile, però non abbiamo alternative e finché c’è questo governo si può comunque trovare una maggioranza trasversale su alcuni temi come questi perché potrebbero essere disponibili al voto una parte del PdL, del Movimento 5 Stelle, di Scelta Civica e via dicendo. A mio avviso con una legge si dovrebbe puntare, più che a un inasprimento della pena, ad esempio, a una pubblica amministrazione trasparente: questa cosa è talmente importante che, da sola, potrebbe cancellare una quota rilevante della corruzione ad personam, ovvero quella che è situata all’interno di uno stretto cerchio di potere politico. A questo dovremmo associare una buona legge (se non con questo governo con il prossimo) che impedisca le investiture politiche e le connivenze che stanno a monte, ad esempio, di troppi Consigli di Amministrazione.

(N.B.) Si parla molto di IMU. Ma dei miliardi di euro in mano alle mafie nell’ambito del traffico di droghe (specialmente quelle leggere) nessuno parla: è un tema troppo delicato da affrontare in un clima di perenne campagna elettorale?

(L.P.) Per la cannabis terapeutica abbiamo già fatto qualche passo in avanti, sul resto c’è molto da fare, ma credo che qualcosa possa e debba muoversi in questa nuova direzione, così come stiamo facendo ad esempio sui diritti gay.

(N.B.) Evasione fiscale e riciclaggio. Adesso che siete al governo, cosa fare a breve e lungo termine?

(L.P.) Penso che qualcosa di buono sia già stato fatto mettendo la soglia massima dei 1000€ in contanti, con questo abbiamo intanto messo i puntini sulle i. Dovremmo mettere in moto una macchina che parta dal presupposto del corretto rapporto tra cittadino e Stato, per poi verificare in modo efficace il percorso inverso: a chiunque si permetta di fregare lo Stato saranno comminate pene molto severe. Credo che se vogliamo recuperare una credibilità nel sistema italiano dobbiamo iniziare a cambiare la mentalità del privato rispetto al pubblico e viceversa: dobbiamo ripristinare il clima di fiducia reciproca.

(N.B.) Spesso, come nel caso di Campobello di Mazara, sono stati sciolti comuni governati dal PD per infiltrazione mafiosa. Su questo tema, crede di poter cambiare dall’interno il suo partito? Come?

(L.P.) Non conoscevo questo caso, ma posso dire che in Calabria sono le nostre sindache che sono eroine per quello che stanno facendo e vivendo contro la mafia. Credo che ci sia bisogno di una presenza più importante dello Stato accanto ai sindaci coraggiosi soprattutto nelle aree a rischio, del Sud ma non solo; finora di loro ci si ricorda solo quando ci sono gesti eclatanti come quelli di minacce alla loro vita o attentati alle loro case e ai loro beni: queste sono persone che vanno accompagnate, tutelate e protette. Per quanto riguarda la lotta ai criminali e ai mafiosi nella vita pubblica credo che siamo sulla strada giusta e spero che al più presto metteremo fine al tormentone estivo (in realtà pluriennale) che ci vede costantemente discutere se una persona che si è macchiata di reati gravi come questi possa o debba continuare a svolgere la sua funzione di rappresentante del popolo: io dico no.

Niccolò Batini



martedì 17 settembre 2013

Lavoro e non solo: una storia di antimafia

Corleone, paesino della Provincia di Palermo nell’entroterra siciliano, è tristemente noto per l’influenza che alcuni suoi cittadini, tra i quali Bernardo Provenzano e Salvatore Riina, hanno avuto sullo sviluppo di Cosa Nostra. Si legge Corleone e si pensa alla capitale della mafia.

In realtà, parallelamente al sistema mafioso, a Corleone è nato quel movimento che a quel sistema si opposto con forza e coraggio.

Uno dei simboli di questa lotta è la Cooperativa Lavoro e non solo, nata da un progetto di Arci Sicilia e partner di Libera, alla quale a partire dal 1999 sono stati affidati terreni un tempo appartenenti a famiglie mafiose.

Ad oggi, la Cooperativa gestisce 150 ettari di terreno sparsi tra Corleone, Morreale e Canicattì e la vecchia casa della famiglia Grizzaffi, oggi Casa Caponnetto. Qui, ogni estate dal 2008, alloggiano centinaia di giovani volontari del progetto LiberArci dalle Spine che scelgono di affiancare i soci della Cooperativa nell’attività agricola e di prendere posizione contro la mafia.

Durante le settimane trascorse a Corleone si è parlato molto di cambiamento culturale, di mutamento di mentalità e degli atteggiamenti, sia individuali che collettivi. I vari ospiti intervenuti a Casa Caponnetto hanno ribadito che sono proprio i giovani la chiave di questo cambiamento.

Quindi si capisce l’importanza di esperienze come i campi di lavoro sulle terre che un tempo appartenevano alla mafia e che oggi sono invece della comunità.

Se durante i primi anni di vita della Cooperativa i soci percepivano un atteggiamento di chiusura, di timore nei loro confronti, a tal punto che alcuni commercianti del paese rifiutavano di vendere loro i prodotti di cui avevano bisogno per dar inizio alla loro attività agricola, adesso quegli stessi commercianti sono disposti a far loro credito.

Nonostante le difficoltà che la loro scelta di vita ha comportato, i soci della Lavoro e non solo non si sentono più soli e questo grazie anche ai giovani di tutta Italia che scelgono di partire per andare a raccogliere i frutti delle terre che chiedono riscatto, quei prodotti che hanno un sapore in più, quello della legalità.

Alessia Giorgetti

sabato 14 settembre 2013

Riparte il futuro...dal passato


Nascere in Italia dalla fine degli anni Ottanta in poi ha voluto dire, per noi giovani, crescere in un paese che aveva perso tutti i suoi punti di riferimento.
Nei primi anni Novanta le certezze che avevano tenuto insieme la Repubblica fino a quel momento iniziano a sgretolarsi. Manipulite svela il livello di corruzione interno ai partiti, senza distinzioni significative tra l’uno e l’altro, creando un clima di sfiducia verso i politici che rimarrà nel tempo. Nel 1992 le stragi di mafia dimostrano, senza possibilità di appello, che nel migliore dei casi lo Stato non è riuscito a difendere chi stava combattendo una battaglia importantissima per il paese. Nel 1994 cade definitivamente il sistema politico che era in vigore dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, e con esso la Prima Repubblica. 
Quella che rimane è un’Italia che ha smesso di credere in se stessa, in cui vige una (apparente?) mancanza di ideali e un disfattismo dilagante. Il fervore culturale e politico che aveva animato gli anni Settanta sembra perso in un passato lontanissimo, così lontano che quasi ci se ne dimentica. 
E’ proprio questo, forse, il problema: negli ultimi vent’anni si è cercato in ogni modo di offuscare o affievolire il ricordo delle lotte portate avanti fino a quel momento. Perché ricordare che è possibile combattere contro le ingiustizie porta le persone ad avere speranza, a pretendere che i propri diritti vengano rispettati e a lottare se questo non succede.
E’ per questo motivo che vogliamo proporvi alcune “rievocazioni” storiche. Sono storie di persone qualunque, che stavano facendo il proprio lavoro o vivendo la propria vita quando si sono trovate ad un bivio: piegare la testa davanti alla violenza, all’ingiustizia, al crimine oppure accettare le conseguenze delle proprie azioni e comportarsi da uomini e donne onesti e coraggiosi. Hanno deciso di sacrificare le proprie vite per un ideale più importante di tutto il resto, hanno creduto che lottare per la giustizia, per il proprio paese, per le persone che amavano fosse più importante di loro stessi. Hanno creduto di poter fare, nel loro piccolo, la differenza, e non hanno voluto tirarsi indietro. Le loro storie sono quelle su cui si fonda il nostro impegno contro la mafia, che vuol dire impegnarsi per difendere o conquistare i propri diritti, contro le logiche di privilegio che spesso governano questo paese. Contro la corruzione, che ha invaso da tempo la politica e quindi la nostra vita.
Possono apparire come storie di sconfitta (ma chi ha perso è spesso lo Stato, non la persona) ma da tutte possiamo trarre grandi insegnamenti. Il primo è che ci sono ideali per cui vale la pena combattere, poco importa quanto grandi siano gli ostacoli che ci troviamo di fronte. Il secondo è che anche quando crediamo di essere soli, abbandonati da tutto e da tutti, possiamo fare la differenza. Poche delle persone di cui raccontiamo hanno avuto fama e onori in vita, spesso sono state riscoperte da morte, quando ormai non era più possibile lottare al loro fianco. Pensiamo che conoscere le loro storie sia importante anche per capire accanto a chi dovremmo camminare, nel presente, e da chi dovremmo invece difenderci con tutte le nostre forze. 


Irene Mangani

Bruno Caccia - Là dove la mafia non esiste


Storia di Bruno Caccia, magistrato ucciso dalla 'ndrangheta trent'anni fa.

La sera del 26 giugno del 1983 Bruno Caccia, il Procuratore capo della Repubblica di Torino, si concede una libertà che gli sarà fatale: congeda la scorta ed esce a portare a spasso il cane. Alle 23.30 due uomini a bordo di una Fiat 128 gli sparano diciassette colpi d'arma da fuoco che metteranno fine al rito delle sue passeggiate serali.
Mentre nel resto d'Italia si archiviano una calda domenica di inizio estate e la prima giornata elettorale, a Torino la 'ndrangheta uccide un magistrato che aveva dedicato la sua vita a far rispettare la legge.
Perchè? Quali motivi hanno spinto un'organizzazione criminale come quella calabrese ad agire lontano dalla sua terra d'origine?

Nato a Cuneo il 16 novembre del 1917, Caccia entra in magistratura nel 1941 e, dopo tre anni trascorsi ad Aosta, rientra nel capoluogo piemontese nel 1967, ricoprendo dapprima l'incarico di sostituto procuratore e poi quello di Procuratore della Repubblica, dal 1980. Sotto il suo comando, nasce il primo pool di giudici istruttori a cui si ispireranno anche Falcone e Borsellino.
Terrorismo e criminalità organizzata sono i cardini intorno a cui ruotano le sue indagini.
Sotto il suo comando la Procura istituì i primi processi contro i capi storici delle Brigate Rosse e dei terroristi di Prima Linea.
Anticipando di otto anni l'inchiesta Mani Pulite, portò alla luce lo scandalo delle tangenti nel comune di Torino, provocando le dimissioni dell'intera giunta comunale.
Certo della presenza malavitosa sul territorio piemontese, avviò una serie di indagini che fecero tremare i vertici delle organizzazioni criminali più radicate a Torino e in provincia, in particolare quelli della 'ndrangheta calabrese.
E la risposta non si fece attendere.

Dopo la sua morte, iniziarono i primi depistaggi che condussero le indagini sulla pista del terrorismo rosso. Fu soltanto qualche anno dopo che si iniziò a seguire il filone della criminalità organizzata. Queste ultime indagini portarono, nel 1992, alla condanna di Domenico Belfiore, capo del clan dei Calabresi che all'epoca dominava la malavita torinese. Riconosciuto mandante dell'omicidio, Belfiore fu condannato all'ergastolo.
Tuttavia, gli esecutori materiali del delitto restano ancora ignoti.
Oggi, trent'anni dopo, in seguito all'emergere di nuovi particolari, come il coinvolgimento di servizi segreti deviati, i figli del magistrato chiedono di riaprire il processo per far luce sull'ennesimo mistero italiano.

Il ricordo di Bruno Caccia rivive nelle parole di Gian Carlo Caselli, attuale Procuratore della Repubblica di Torino: “Con lui ho imparato il mestiere di magistrato. 
Era un uomo rigoroso ma giusto. La sua cifra di magistrato era applicare la legge senza sconti per nessuno, nel rispetto però delle persone e della dignità di chiunque".

Bruno Caccia è stato l'unico magistrato ucciso dalla mafia nel Nord Italia. Dove la mafia non esiste.

Marika Pezzolla

Quando il coraggio non ha età - Rita Atria, una storia dimenticata


Rita Atria ha 16 anni quando, stanca della violenza mafiosa nella quale è sempre vissuta, decide di rompere il muro dell’omertà e collaborare con le istituzioni diventando testimone di giustizia. Decide di ribellarsi alla mafia non per senso civico ma per amore, per amore del fratello, mafioso ucciso da mafiosi.

Rita è solo una bambina quando, nel novembre del 1985, il padre Vito, uomo d’onore di Partanna, paesino di diecimila anime fra Trapani e Palermo, viene ucciso dalla mafia siciliana per essersi opposto alla scelta di Cosa Nostra di buttarsi nel traffico di droga. La morte del padre lascia segni profondi in Rita, la quale riverserà tutto il suo amore sul fratello Nicola e sulla madre Giovanna, con la quale il rapporto resterà però sempre difficile.

Il fratello Nicola, nel mentre, si trasferisce insieme alla moglie Piera e alla figlia a Montevago dove apre un bar, un investimento con cui cercare di rimanere fuori dal giro della mafia. Si fa però presto ammaliare dai soldi facili derivanti dal commercio della droga e cade anch’egli vittima della mafia che già aveva ucciso il padre. E’ il giugno del 1991 quando Nicola viene ucciso. La moglie Piera decide allora di averne abbastanza e, contro tutto e tutti, di ribellarsi e collaborare con la giustizia. E’ così che conosce il procuratore capo di Marsala, Paolo Borsellino; sarà lui ad occuparsi di lei e a farla trasferire a Roma sotto protezione.

Rita, perso il padre, il fratello e adesso anche la cognata con la quale spesso aveva condiviso i dolori familiari, si ritrova sola, con accanto solo la madre che però è decisa a non “tradire” la famiglia.

Decide quindi di seguire l’esempio di Piera; si ritrova davanti Paolo Borsellino, un uomo nel quale la giovane siciliana rivede il padre che gli è stato strappato. Rita si fida totalmente del “giudice dai baffetti gentili” e gli racconta tutto ciò che aveva visto e sentito negli anni a contatto col padre prima e con il fratello poi; grazie alle sue rivelazioni vengono eseguiti molti arresti nel paese e la gente comincia a insospettirsi, prima fra tutti la madre che non voleva una figlia infame. Dopo l’ennesima minaccia a Rita, Borsellino decide che la ragazza deve essere portata via da quella terra di violenza e così, il 21 novembre 1991, Rita viene trasferita a Roma sotto la protezione dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia.

A Roma inizia una nuova vita, con un nuovo nome e un lavoro di copertura. Sembra andare tutto bene insieme alla cognata e alla nipotina; conosce anche un ragazzo del quale si innamora e con il quale sogna di andare a vivere. Il 23 maggio 1992 però tutto cambia; l’attentato di Punta Raisi le ricorda da cosa sta fuggendo, la terra insanguinata contro la quale si è ribellata. Una grande amarezza la avvolge insieme allo sconvolgimento per la morte del giudice Falcone. Passa poco tempo quando, il 19 luglio 1992, tutto va in frantumi; “Zio Paolo”, come Rita chiamava Borsellino, viene ucciso in Via d’Amelio e Rita si sente all’improvviso sola e sconfitta. Si trasferisce in un appartamentino a vivere da sola e, il 26 luglio, mentre la cognata è in Sicilia per rivedere i parenti, Rita si getta dal terrazzo del settimo piano. A 17 anni finisce la vita della ragazza che aveva osato ribellarsi alla mafia. Al funerale partecipano quasi duecento donne, a rappresentare l’orgoglio delle donne siciliane unite contro la mafia; ma proprio di una donna si noterà l'assenza: Giovanna, la madre di Rita.  La ragazza verrà così seppellita sola, a 17 anni, lei e la sua giovinezza.

Alessandro Giubilei e Michela Simi

La peste - Da dove riparte il futuro?


La corruzione è uno dei motivi principali per cui il futuro dell’Italia è bloccato nell’incertezza. Pochi paesi dell’Unione Europea vivono il problema in maniera così acuta (fanno peggio solo Grecia e Bulgaria). Si tratta di un fenomeno dilagante, fra le cause della disoccupazione, della crisi economica, dei disservizi del settore pubblico, degli sprechi e delle ineguaglianze sociali, che danneggia le istituzioni e la vita quotidiana delle persone.

La corruzione nel nostro Paese è un cancro le cui metastasi si sono allargate in modo generalizzato. Invadente, invasivo, ma silenzioso. Che uccide moralmente e fisicamente. Un virus che cambia aspetto e si rigenera anno dopo anno. Difficile da debellare. La corruzione adesso è a livelli mastodontici e può crescere ancora, se non si contrasta in modo netto, senza mediazioni, con volontà politica concreta, al di là delle parole di questo o quel partito. La corruzione ci ruba il futuro, in tutti i sensi. Un male che comporta rischi per la credibilità della nostra economia, per la tenuta della nostra immagine all'estero, per gli investimenti nel nostro Paese. E che crea disuguaglianze, massacra le politiche sociali, avvelena l'ambiente, tiene in ostaggio la democrazia. Infatti se il costo diretto della corruzione (stimato all'incirca in 60 miliardi di euro all’anno) è un fardello pesante per i disastrati bilanci dello Stato, ancora più allarmanti sono i danni politici, sociali e ambientali: la delegittimazione delle istituzioni e della classe politica, il segnale di degrado del tessuto morale della classe dirigente, l'affermarsi di meccanismi di selezione che premiano corrotti e corruttori nelle carriere economiche, politiche, burocratiche, il dilagare dell'ecomafia, attraverso fenomeni come i traffici di rifiuti e il ciclo illegale del cemento, che si alimentano quasi sempre anche grazie alla connivenza della cosiddetta "zona grigia", fatta di colletti bianchi, tecnici compiacenti, politici corrotti.

Ma non tutti pagano allo stesso modo: a farne le spese sono le fasce deboli, i poveri, gli enti che sono costretti a tagliare sulla sanità, sull'assistenza, sulle mense scolastiche. Una peste che mina quotidianamente il rapporto di fiducia tra cittadini ed istituzioni, alimentando un clima diffuso di sospetto. Quando il pagamento delle tangenti diventa prassi comune per ottenere licenze e permessi, e la risorsa pubblica è risucchiata nei soliti giri di potere, ciò che viene sacrificato sull'altare dei furbetti di turno è soprattutto la credibilità dello Stato, con un doppio rischio: da un alto un'illegalità sdoganata in virtù della sua diffusione, in un clima di generale rassegnazione; dall'altro gli appesantimenti burocratici, la ridondanza di controlli, leggi e leggine che diventano una sorta di persecuzione dello Stato sui cittadini onesti, messo in atto nel tentativo di colpire chi viola le regole.

Quale speranza, quale spinta può avere un Paese, se i suoi abitanti sono convinti che solo nelle ruberie si nasconda la chiave del successo e che la legalità sia un inutile fardello? Quella che emerge oggi, in definitiva, non è tanto una corruzione liquida o gelatinosa, come l'hanno definita commentatori e inquirenti per contrapporla a quella del passato, strutturata intorno all'obolo coatto versato dalle imprese ai partiti. È infatti una corruzione ancora solidamente regolata, dove però a seconda dei contesti il ruolo di garante del rispetto delle regole del gioco è ricoperto da attori diversi: l'alto dirigente oppure il faccendiere ben introdotto, il "boss dell'ente pubblico" o l'imprenditore dai contatti trasversali, il capofamiglia mafioso o il leader politico a capo di costose macchine clientelari. Collocandosi al centro delle nuove reti di corruzione, questi soggetti riescono ad assicurare che tutto fili liscio, favoriscono l'assorbimento dei dissidi interni e creano le condizioni per l'impermeabilità del sistema della corruzione ad intrusioni esterne.

“La corruzione è come la peste, dobbiamo fare in fretta”. Don Luigi Ciotti cita il cardinale Carlo Maria Martini per premere l’acceleratore della campagna anticorruzione “Riparte il futuro” promossa da Libera e Gruppo Abele. La lotta alla corruzione ha quindi bisogno del sostegno di tutte le diverse forze politiche e di quella parte della società civile che più desidera il cambiamento.
Niccolò Batini