mercoledì 11 dicembre 2013

Terremoto L’Aquila: l’Unione Europea e il malaffare post sisma



Il 4 novembre scorso viene presentato un rapporto dell’Unione Europea in cui si critica il modo in cui l’Italia ha gestito i fondi europei per la ricostruzione dell’Aquila dopo il terremoto. Nel dossier, redatto dall’europarlamentare Søren Bo Søndergaard, deputato della Sinistra unitaria, si parla della scarsa qualità dei materiali usati per la costruzione degli edifici, dei prezzi gonfiati dovuti ad un complesso gioco di appalti e subappalti, del fatto che molte aziende coinvolte nella ricostruzione fossero prive del certificato antimafia, quindi di infiltrazioni della criminalità organizzata. Al centro di tutto la critica ai progetti CASE (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili) e MAP (Moduli Abitativi Provvisori).
Oltre alle autorità italiane, anche quelle comunitarie vengono accusate di negligenza. Søndergaard cita l’ispezione di una delegazione dell’UE in Abruzzo nel 2010 e ricorda di come questa non abbia tenuto conto, nella relazione successivamente redatta, dei problemi sollevati da molti deputati. La Commissione bilancio dell’Unione, inoltre, ha valutato i costi della ricostruzione senza diffonderne i dati. Il documento è stato presentato al Parlamento Europeo il 7 novembre e, per il momento, sembra scongiurato il pericolo per l’Italia della restituzione all’Europa di 350 milioni di euro dei 493,7 ricevuti dopo il sisma. La Commissione Europea ha rispedito le accuse al mittente affermando che “il denaro del Fondo UE di solidarietà dato all’Abruzzo non è andato perso e i soldi dei contribuenti non sono stati sprecati”. Shirin Wheeler, la portavoce responsabile per le Politiche regionali della Commissione Europea, ha dichiarato che l’Italia non dovrà restituire i fondi perché “i finanziamenti sono stati usati per progetti puliti”.
Questo dossier dell’Unione, presentato quasi cinque anni dopo il sisma del 6 aprile del 2009, rivela fatti eclatanti solo per i professionisti della negazione dell’evidenza e fa riflettere su quanto inascoltate siano state le voci degli addetti ai lavori sui pericoli di infiltrazioni criminali dopo una simile situazione d’emergenza. Il 25 gennaio del 2010, ai microfoni del tg3 regionale, Olga Capasso, il Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, dichiara: “Non ci sono solo i casalesi, ma anche mafia e ‘ndrangheta. Mi sembra che tra i problemi legati alla lotta alla criminalità organizzata quello dell’Aquila sia uno dei nodi più grossi a livello nazionale”. Nel dicembre del 2010 il Presidio Libera Abruzzo pubblica un dossier sul malaffare intorno al terremoto dal titolo emblematico: Crepe. 6 aprile 2009 ore 3.32. La fine dell’isola felice. Il rapporto, dettagliatissimo, si compone di 16 pagine, ma sono sufficienti le parole scritte nella prima a dare un sussulto di indignazione: “Il sisma del 6 aprile rappresenta un evento traumatico che ha segnato e segnerà la storia della regione per i prossimi decenni. E segnerà in maniera marcata la storia criminale e del malaffare. La scossa che alle 3.32 ha devastato L’Aquila non ha prodotto solo lutti e macerie. Ha spazzato via anche quel velo di ipocrisia che copriva chi si ostinava a parlare ancora di Abruzzo isola felice. […] Una cosa però è chiara: il territorio sarò investito da ulteriori assalti che non possono più essere affrontati solo come un problema di polizia. La situazione è talmente grave che la società civile dovrà decidersi a scendere in campo e concertare un’azione comune”. Le presenze della criminalità organizzata in Abruzzo sono precedenti al terremoto. Tutto ciò che è accaduto dopo la scossa del 6 aprile ha rivelato quello che la regione rappresenta per la criminalità organizzata: una lavanderia.
Come sempre accade in queste situazioni, la società civile diventa l’unica forza in grado di impedire che sulle istituzioni sventoli bandiera bianca. Tra decreti d’emergenza, militarizzazione del territorio e sospensione dello stato di diritto, la gestione del post terremoto si va ad aggiungere alle tante storie italiane da cui avremmo molto da imparare, una sorta di modello matematico da tenere bene a mente e da non applicare più. Tuttavia, si preferisce ancora agire negando il passato piuttosto che imparare da esso per porre le basi di un futuro diverso. 
                                                                                                                                         Marika Pezzolla

martedì 10 dicembre 2013

La Carta di Pisa: prima esperienza italiana di Codice Etico per amministratori locali


Il 27 febbraio 2012 è stata presentata alla sala stampa della Camera dei deputati la “Carta di Pisa”: codice di comportamento predisposto dall’associazione Avviso Pubblico. Enti locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie e rivolto ad amministratori pubblici politicamente eletti e nominati. Strumento giuridico di soft law fondato sul principio di autoregolamentazione - per il quale coloro che stabiliscono le regole sono anche i soggetti tenuti a rispettarle - il codice etico è pensato come una strategia di prevenzione della corruzione basata su un approccio bottom-up, proveniente cioè dal basso.
Va precisato che l’intento di Avviso Pubblico è stato quello di dar vita ad un modello di codice di comportamento che le singole amministrazioni sono libere di modificare ed integrare al fine di renderlo il più adatto possibile alle particolari esigenze di ognuna di esse.
Il primo Ente a sottoscrivere la Carta è stato, simbolicamente, la Provincia di Pisa: a distanza di quasi due anni dall’introduzione del Codice sono 24 gli Enti territoriali locali che lo hanno adottato tra i quali figurano 22 Comuni e 2 Province. Il fatto che - in diversi casi di adozione - il Codice non sia stato automaticamente recepito denota l’interesse rivolto a tale strumento che è stato infatti oggetto di attenzione in tutte le sue parti, preso quindi “sul serio” dai singoli Enti e non come una serie di previsioni semplicemente da “copiare e incollare”. Molti si sono preoccupati degli effetti delle disposizioni enunciate e si sono attivati per emendarle, ostacolando - non di rado - l’adozione della Carta da parte di Giunte e Consigli di varie amministrazioni. Il Codice prevede anche la possibilità di sottoscrizione volontaria da parte del singolo amministratore, come una sorta di sfida lanciata ai restanti rappresentanti politici a fare altrettanto e ad assumere la medesima responsabilità a fronte di un rinnovamento in senso etico dell’organo politico dell’amministrazione.
Venendo ai contenuti, la Carta è costituita da regole di condotta che agiscono su quelle situazioni “propedeutiche” alla corruzione, che mirano cioè a far sì che i rappresentanti politici siano al di sopra di ogni sospetto evitando di compiere quelle azioni che potrebbero generare anche la mera apparenza di scorrettezza (o d’illecito vero e proprio). In questo senso, un esempio rappresentativo è costituito dalla norma della Carta che vieta di accettare regali - per un valore superiore a 100 euro annui - provenienti da quelle fonti interne ed esterne alla pubblica amministrazione i cui interessi potrebbero essere influenzati dalla decisione pubblica all’adozione della quale il rappresentante politico destinatario del dono partecipa. Sono inoltre previsti degli obblighi di astensione per i quali, a fronte del palesarsi di situazioni di conflitto d’interesse, l’amministratore è tenuto ad astenersi dal procedimento decisionale che potrebbe influenzare i suoi interessi personali, quelli del coniuge e di soggetti con i quali egli ha un rapporto di parentela entro il quarto grado. C’è poi una sezione del Codice che disciplina i rapporti tra l’amministratore e l’autorità giudiziaria verso la quale egli è chiamato a prestare la massima collaborazione fornendo tutte le informazioni richieste al fine di favorire un eventuale svolgimento d’indagini. In questo quadro s’inserisce una delle disposizioni più significative enunciate dalla Carta: in caso di rinvio a giudizio per reati di corruzione, concussione, associazione di stampo mafioso, peculato, riciclaggio, traffico illecito di rifiuti e tutte le altre fattispecie citate all’articolo 1 del codice di autoregolamentazione approvato nel 2010 dalla Commissione parlamentare antimafia, l’amministratore deve dimettersi o a rimettere il mandato nelle mani dell’organo politico dell’ente che - in virtù degli impegni presi sottoscrivendo il Codice – è tenuto a revocare l’incarico del rappresentante politico inquisito.


Giacomo Poeta 

lunedì 9 dicembre 2013

Lacrime di coccodrillo


18 novembre 2013. Morti e dispersi. E' emergenza. Precipitazioni molto intense hanno colpito la Sardegna per oltre venti ore. Segnalati accumuli record, anche superiori ai 300 millimetri. Si contano i danni. Ponti crollati, viabilità in tilt. Persone soccorse e salvate dai soccorritori. Le precipitazioni si sono scatenate nel tardo pomeriggio con particolare violenza tra Nuoro e Olbia. Alla fine si conteranno 17 vittime accertate.
Purtroppo questo film già visto infinite volte è così sempre uguale a se stesso da far suonare rituali, quasi accademiche, anche le parole di chi non ha mai smesso di denunciare l'Italia colabrodo. Malgrado tutto però noi tutti dobbiamo insistere. E' vero: in poche ore sull'Ogliastra e sul Nuorese è caduta tanta pioggia quanta in genere ne arriva in un anno: più o meno 400 millimetri. Ma non è la prima volta che succede. Come ha ricordato il meteorologo Luca Mercalli, soltanto negli ultimi dieci anni è capitato in altre due occasioni, 2008 e 2004; andò peggio solo nell'ottobre 1951.
Si è trattato sì un fenomeno eccezionale, probabilmente inasprito dai cambiamenti climatici globali che stanno investendo il Mediterraneo, ma non è stato un fenomeno inedito. E allora, pesantemente, piomba la oramai ricorrente e arcinota domanda leniniana: che fare?
Si può, si deve, sicuramente, rendere il "pronto soccorso" della protezione civile più efficace: anche se oggi funziona bene nel suo snodo centrale di coordinamento, troppo spesso perde rapidità ed efficienza quanto più ci si allontana da Roma e ci si avvicina ai luoghi fisici, laddove ci sono da gestire emergenze improvvise e gravi.
E poi, imprescindibilmente, si deve fare il contrario di ciò che in Italia si fa da decenni: consumo scriteriato del suolo e scarsi investimenti nella messa in sicurezza e nella manutenzione ordinaria del territorio. A fronte di un costo complessivo per la messa in sicurezza del nostro territorio stimato in circa 40 miliardi, tutti gli ultimi governi - da Berlusconi a Monti a Letta - hanno previsto a tale scopo risorse irrilevanti, fino all'obolo di 30 milioni messo a bilancio con l'attuale Legge di Stabilità. I governi italiani non hanno mai problemi a trovare miliardi per grandi opere, costosissime o di dubbia utilità, o per mega acquisti che interessano solo a qualche lobby potente come i famigerati F35, invece davanti all'esigenza veramente vitale per il Paese di trovare non diciamo miliardi ma almeno qualche centinaio di milioni da destinare alla difesa del suolo, alzano le braccia.
Cemento ovunque, comprese quelle zone in cui non si dovrebbe costruire un metro cubo, come ad esempio le fasce golenali di fiumi e torrenti. Abusivismo edilizio tollerato e spesso incoraggiato a forza di condoni: dobbiamo cambiare mentalità. La filosofia del condono ci porta a credere che il denaro estingua il rischio, che se uno paga l'ammenda per un abuso si mette per sempre in regola: mentre l'alluvione sarda ci deve insegnare che la precarietà non si mette a norma, che finché non si risolve il problema che si è creato sul territorio, la minaccia, in caso di alluvione, resta sempre dietro l'angolo. Fra le tante cifre che ci ballano davanti agli occhi, fra le tante cifre che si ricordano, ce n'è una che ci deve far riflettere, e che andrebbe scolpita, anche nei fumosi discorsi dei responsabili istituzionali: per ogni miliardo di euro speso in prevenzione, in questo Paese, ne spendiamo due e mezzo di emergenza.

Si chiedano più investimenti sul futuro, si metta a norma tutto quello che si può e si deve, e per favore, smettiamola di piangere lacrime di coccodrillo, prima che ci venga presentato di nuovo il conto di tutto ciò sotto forma dell’ennesima tragedia.

Niccolò Batini

sabato 7 dicembre 2013

Cosa c’entra l’Italia con il Messico?


I meno giovani probabilmente ripenseranno alla finale dei mondiali di calcio che l’Italia ha disputato in Messico contro il Brasile nel 1970, ma purtroppo non è soltanto questo che lega il nostro Belpaese alla terra dei narcos, quanto piuttosto il commercio di cocaina.
E’ infatti nel porto di Gioia Tauro, con i suoi 3500 chilometri di banchine, che arrivano le navi della cocaina; ne arrivano così tante che qualcuno ha iniziato a chiamarla “Coca-Tauro”. A differenza del Messico non ci sono né soldati né cadaveri per le strade della Piana, eppure è la ‘ndrangheta il nuovo sodale dei cartelli messicani della droga. Il traffico internazionale di cocaina, che in Messico miete 1400 vittime al mese, in Calabria ha trovato spazio in un gioco di quote e spartizioni territoriali tra ‘ndrine rivali. Questo perché il commercio di cocaina non ha rivali in termini di guadagni; basti pensare che un chilo di cocaina, comprata dai gruppi criminali a 1500€ al chilo, può fruttare fino a 225000€ una volta lavorata ed immessa nel mercato dello spaccio locale. Più di 100mila persone, ad oggi, hanno perso la vita in questa sanguinosa guerra per la polvere bianca e l’Italia, sopra la media europea per consumo di cocaina, ha le sue colpe in questo poiché a maggior consumo corrispondono maggiori guadagni. Gioia Tauro, con i suoi 3,5 milioni di container l’anno che arrivano sulle sue banchine, è la principale porta di ingresso della cocaina in Europa; e la ‘ndrangheta, economicamente e logisticamente imbattibile tra tutte le mafie, ne è la regina, riuscendo a coprire, da sola, circa l’80% dell’intero traffico di cocaina nel Vecchio Continente con guadagni annuali dell’ordine dei 20 miliardi di euro. Globalmente il traffico di stupefacenti fa arrivare nelle tasche della criminalità organizzata 350 miliardi di dollari l’anno; i narco-dollari, o coca-euro per quanto ci riguarda, vengono riciclati nell’economia legale, grazie ad appoggi all’interno dell’istituzioni e degli istituti di credito, andando a corrompere irreparabilmente il sistema economico degli Stati importatori. Gli elevatissimi guadagni derivanti dal narcotraffico permettono, infatti, alle mafie di insinuarsi nelle attività produttive del Paese, andando a stroncare, in un periodo di crisi come quello attuale, la concorrenza imprenditoriale grazie alla pressoché infinita disponibilità di liquidità. Dall’analisi dei dati emerge come i narco-dollari siano diventati ormai un cardine del sistema finanziario globale.
Ad ogni anno che passa il quantitativo di droga intercettato aumenta sempre di più, ma, come hanno svelato le inchieste, solo il 10% della cocaina viene intercettato, perciò è facile capire come all’aumento di droga sequestrata corrisponda un aumento della droga importata, e quindi venduta. Con la fine dell’egemonia colombiana nel traffico di cocaina, la ‘ndrangheta è riuscita a capire prima delle altre mafie le possibilità economiche di un accordo con i narcos messicani e così, dal 2008, iniziano a emergere dalle investigazioni i primi contatti criminali tra Italia e Messico. E’ necessario, a questo punto, chiedersi chi fornisce alla ‘ndrangheta la droga destinata ai mercati europei. A gestire il commercio di cocaina è il cartello messicano dei Los Zetas, responsabili negli ultimi anni d’innumerevoli sequestri di migranti centroamericani – se ne contano più di 20mila l’anno - torturati e poi rivenduti, come moderni schiavi, nei mercati del sesso, degli organi e della pedofilia; un mercato da decine di milioni di dollari l’anno. E’ dalle loro mani che arriva la polvere bianca che fa sballare giovani, e non solo, di tutta Europa; ed è a loro che questi ultimi pagano il prezzo del loro divertimento. Una cocaina che quindi, più che bianca, appare rosso sangue.  

Alessandro Giubilei
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------

I dati contenuti nell'articolo sono presi dal libro “Coca Rosso Sangue” di Lucia Capuzzi, edito da Edizioni San Paolo.

-------------------------------------------------------------------------------------------------------------

https://www.facebook.com/events/617014628355596/?ref_newsfeed_story_type=regular



venerdì 8 novembre 2013

#FIUMEINPIENA: STOP BIOCIDIO!


Il comitato #fiumeinpiena è costituito da un gruppo di giovani che solo negli ultimi mesi si son trovati, ma quello a cui hanno deciso di dar voce non è qualcosa di nato all'ultimo momento: ci sono tutti. Dai comitati territoriali alle parrocchie, dalle associazioni ai medici: tutti gli inascoltati degli ultimi vent'anni finalmente tirano un sospiro di sollievo perché hanno trovato lo spazio mediatico – gliel'hanno dovuto concedere le dichiarazioni di un pentito – in cui dire, spiegare, rivendicare. In cui banalmente piangere i propri morti per mano assassina, nonostante un tumore li abbia portati via.

L'idea è partita in maniera spontanea, l'esigenza che hanno voluto esprimere era palese a tutti: riversare nelle strade di Napoli tutte le mobilitazioni e tutte le rivendicazioni che da mesi animano le piazze campane: da due mesi ormai le strade della regione sono attraversate ogni giorno da manifestazioni di protesta. In migliaia sono scesi in piazza, con cortei che hanno contato decine di migliaia di persone in paesini a stento noti alle amministrazioni cittadine.
Dalle prime dichiarazioni di Schiavone alle deposizioni desecretate del 1997, il movimento contro il biocidio cresce in maniera sorprendente, di giorno in giorno. È un movimento ampio, trasversale, che ha al suo interno gruppi attivi da vent'anni sul territorio. È da questo movimento che sarà popolata la piazza del 16 novembre, che sarà la piazza di tutti.
Era quello di cui avevano bisogno e volevano da vent'anni. Tutti sono consapevoli del fatto che il corteo del 16 novembre non guarirà i tumori, non contrasterà quelli che stanno per insorgere, non bonificherà le terre e non risolverà nulla. Ma quella data è un simbolo. È il simbolo del fatto che opporsi ad uno stato di cose ingiusto, aberrante, vale qualcosa. È il simbolo del fatto che quei morti di cui ci schiaffano in faccia le foto ad ogni occasione non sono morti invano. È di questo che abbiamo bisogno.
Quella piazza è il punto d'arrivo di un percorso di anni di studio, mobilitazione, rivendicazione. Di mazzate, anche di arresti, per chi certe cose le dice da prima dei telegiornali. È la dimostrazione 
del fatto che anche se in ritardo, le risposte di massa arrivano. È la dimostrazione del fatto che nessuno ha sprecato il proprio tempo. E le proprie vite. Invece di pensare a salvarsi da solo. È di questo che abbiamo bisogno.
E soprattutto quella piazza è un punto di partenza di un movimento di opposizione forte e consapevole che ha precise in testa non solo parole d'ordine ma pure rivendicazioni, soluzioni, processi. Molto più chiaramente di molte delle istituzioni che non hanno mai prestato alla questione la dovuta attenzione. Molto più di quelle istituzioni che quando non sono state complici, sono state zitte e cieche di fronte al disastro.
Quella piazza è il riscatto, è il megafono per dare voce a chi da mesi fa cortei, presidi, assemblee, e che è a un livello più avanzato dell'opinione pubblica: è il riscatto di chi vuole andare a dire che la propria fine la conosce già, ma che nel frattempo ha disegnato alternative, ha in mente un modello diverso dalla contrapposizione all'attuale piano di gestione dei rifiuti all'opposizione ai trattamenti a caldo, dalla volontà di monitorare le bonifiche a quella di proporre sistemi che vadano dal no food alla fitodepurazione, da una mappatura dei siti contaminati alla tutela di quelli sani.
Quella piazza è il simbolo di un paese reale che si oppone ad uno Stato che per vent'anni ha tenuta segreta una terribile verità, che si è arrogato il diritto di tenerci all'oscuro della nostra condanna a morte. Qualcuno dovrà pagare per quello che è successo. Quella è la piazza di chi ha deciso di restare nonostante tutto e resistere per riscattare il proprio territorio, perchè se andiamo tutti vincono loro: i camorristi, i politici conniventi, i politici camorristi, lo stato silenzioso e assassino, gli imprenditori che si sono arricchiti sulle nostre vite.

Comitato "fiume in piena"

domenica 3 novembre 2013

Addiopizzo - Contro il pizzo a fianco dei cittadini

"Addiopizzo è un'associazione di volontariato nata spontaneamente, dal basso, a Palermo nell'estate del 2004. Lotta contro il racket delle estorsioni mafiose, interpretandolo come immediata manifestazione dell'essenza di Cosa nostra, nonché come tassello di un più esteso sistema di potere mafioso.
Addiopizzo è un'associazione espressamente apartitica, ma politica, perché promuove la partecipazione democratica come modalità migliore per il superamento di tale sistema di potere. A tal fine promuove e sperimenta prassi radicate nella cultura della legalità costituzionale e tese alla somma valorizzazione dei beni comuni.
Uno dei principali strumenti realizzati dall’Associazione è la campagna di consumo critico “Pago chi non Paga”, pratica collettiva che impegna i cittadini-consumatori a compiere i propri acquisti presso le imprese e gli esercizi commerciali che non si piegano ai fenomeni estorsivi e mafiosi.
Oggi gli operatori economici sono oltre 800 e i cittadini che hanno sottoscritto il manifesto più di 10000.
L’Associazione Addiopizzo, insieme a Libero Futuro, in questi anni ha assistito oltre duecento imprenditori che hanno subito intimidazioni e richieste estorsive e che hanno collaborato e denunciato.
Percorrendo le strade della nostra città, passando dalle scuole e dalle aule di tribunale, praticando il consumo critico e vigilando sempre sull’operato dei pubblici poteri e della classe dirigente, si fa sempre più forte in noi la consapevolezza che il cammino da fare è ancora lungo e arduo. Tuttavia è altrettanto forte la convinzione che la sconfitta del sistema di potere mafioso è possibile. Dipende dalla volontà di tutti e di ciascuno.
Se mai verrà il giorno in cui potremo dimostrare a noi stessi il fatto di esserci definitivamente lasciati alle spalle questa triste, dolorosa e umiliante realtà, allora sapremo che ognuno di noi è stato parte attiva di una vera e propria Liberazione, e che quindi potremo finalmente diventare ciò che potenzialmente già siamo: un popolo onesto, laborioso e creativo."

sabato 26 ottobre 2013

Buon Compleanno Ex-Colorificio!

“Ragazzi, avessi un po’ di spazio, come mi piacerebbe farvi tornare a collaborare, a riparare biciclette, ad allenarvi su una parete di arrampicata, a insegnare ai migranti i loro diritti e una nuova lingua, a cucinare cibo libero, a discutere di libri, ad ascoltare buona musica!”. Così, il 20 Ottobre 2012, il Municipio dei Beni Comuni, in forma aperta e pubblica, ha liberato l’ex Colorificio, restituendolo alla città e rendendolo fruibile a decine di attività, le più disparate e diverse, rispondenti a necessità e desideri di una cittadinanza sempre più stretta nella morsa della crisi, nel tunnel dell’impotenza teorica di un qualsiasi cambiamento.

Era il 1924 quando il chimico inglese Alfred Houlston Morgan fondò il Colorificio Toscano nel Viale delle Cascine, in un'area periferica caratterizzata da attività di tipo tradizionale a carattere stagionale, come i fornaciari per la produzione di laterizi o lo sfruttamento della pineta della vicina Tenuta di San Rossore. Rispetto a tali lavorazioni il Colorificio rappresentava un passo avanti in termini di modernità produttiva: una vera e propria impresa industriale faceva il suo ingresso nella zona di Barbaricina, favorita dalla concomitante vicinanza della linea ferroviaria e della Via Aurelia.

Dopo aver passato non senza difficoltà gli anni della Seconda Guerra Mondiale, con il boom economico a cavallo tra gli anni '50 e '60, consentito da una struttura dei salari ancora arretrata e da una crescente domanda estera, il Colorificio garantì ampi profitti agli operatori economici che fossero in grado di presentare sui mercati dei prodotti appetibili: esso infatti possedeva le risorse per non perdere l'appuntamento con una congiuntura economica estremamente favorevole. Ma è proprio in questi stessi anni che possiamo vedere le radici del ciclo di deindustrializzazione che ha portato Pisa ad avere il volto che oggi ci è familiare, con il polo dei Navicelli, che si sta trasformando grazie a una partita di scambio con la Saint-Gobain, in cui la multinazionale francese ha barattato la propria permanenza con il permesso di svolgere una vasta operazione immobiliare nelle aree prospicienti a cui se ne sono aggiunte altre. L'area di Viale delle Cascine, che fino a poco tempo fa ospitava il terzo polo industriale di Pisa, invece, non è stata ancora interessata né da operazioni di carattere speculativo né ha attirato l'attenzione dei grandi operatori pubblici presenti in città. La violenta lacerazione nel tessuto urbano prodotta dalla rapida destrutturazione portata avanti dalla multinazionale J Colors, che, come un rapace piomba dall’alto sulla vittima in una lotta impari, si è appropriata del Colorificio trasformando la fabbrica in magazzino, ha prodotto i licenziamenti degli ultimi lavoratori nel 2008. Il Diritto alla città, quindi, può e deve trovare modo di essere la leva con cui si ribalti il tentativo di un annullamento di ogni possibilità di accesso alla cultura, sport, servizi, lavoro, come di ogni tentativo di negare diritti in ogni sfera della vita, da quello alla salute al lavoro alla mobilità.

Livio Pepino e Marco Revelli sono tra i curatori del libro uscito per Edizioni Gruppo AbeleGrammatica dell’indignazione”: «L’indignazione è maggioranza nel Paese – spiegano – ma rischia di non contare nulla a livello istituzionale o di veicolare risposte populiste e demagogiche di corto respiro. Per questo è utile provare a mettere ordine, a trasformare un sentimento diffuso in proposta di cambiamento e allo stesso tempo di conservazione di ciò che, invece, va mantenuto e di cui troppi vorrebbero liberarsi, dalla Costituzione al welfare».

Uno spazio sociale rappresenta il segno tangibile e vissuto da migliaia di persone di una direzione alternativa, non legata a un’idea aprioristica di sviluppo, bensì capace di rispondere a un piano urbano finalmente centrato sull’ecologia, sulla valorizzazione dell’esistente, sui bisogni dei cittadini: per cui, dopo questi dodici mesi, anche e soprattutto in questi che sono i giorni più duri e difficili a causa dello sgombero imposto, buon compleanno, ex Colorificio!

Niccolò Batini