Perché
spendere una settimana della propria estate in un piccolo paesino del Sud-Italia,
un viaggio della speranza per arrivare, un vitto e alloggio basici e spartani,
la prospettiva di lunghe mattinate di lavoro nei campi a strappare erbacce
sotto il sole e a pelare melanzane, il tutto condito da 35 sconosciuti
provenienti da tutta Italia con i quali condividere ogni istante?
Certamente
non per una predisposizione all’autolesionismo, forse per una naturale
curiosità, una voglia di mettersi in gioco, di conoscere e conoscersi, di
imparare con gli altri e dagli altri. Per la voglia di scoprire una realtà
lontana, una realtà che fino a quel momento avevo visto solo nei film e nelle
fiction, letto nei libri, immaginato.
Perché
la regione in cui vivo, le Marche, dà ancora di sé l’immagine di una piccola
isola felice, dove la mafia sembra non esserci, o per lo meno non è così
evidente, ma svolge i suoi traffici dietro le quinte, senza disturbare troppo
né fare scalpore. Non mi è mai capitato di entrare in un bar e sentire qualcuno
offrire il caffè a tutti quello che entrano dopo di lui, non per generosità ma
per mostrare chi fosse, o sapere che qualche commerciante del paese paghi qualcuno
che periodicamente viene a riscuotere, nessuno che per non averlo fatto sia
stato vittima di ritorsioni, mai avuto compagni di classe il cui cognome ne
rivelasse l’appartenenza a una famiglia da temere e a cui mostrare rispetto,
nessuna sparatoria, nessun sequestro, nessun morto. Non per quei motivi per lo
meno. E non è nemmeno il caso, per ora, di regioni come Lombardia, Piemonte,
Emilia-Romagna, Lazio, in cui la mafia c’è ed è quella dei colletti bianchi,
quella che s’infiltra nella finanza, nella politica, nelle istituzioni;
territori da tempo non più immuni al traffico di droga, alla gestione mafiosa
dello smaltimento dei rifiuti, delle gare d’appalto, di ristoranti e locali,
regioni in cui per aver raggiunto livelli tanto elevati e scatenato maxi-operazioni
delle forze dell’ordine, la sua presenza un tempo invisibile oggi non può più
essere negata.
No, il
mio era come entrare in un mondo in cui quella è la quotidianità e lasciarsene
alle spalle un altro, in cui la gente ha mille problemi per la testa ogni
giorno ma quello della mafia proprio no, grazie al cielo.
Partivo,
dopo aver tentato di spiegare a chi mi era accanto cosa stessi andando a fare,
cosa fosse “Libera”, perché arrivare fino in Calabria per lavorare nei campi
sequestrati alla ‘ndrangheta quando - se uno ha proprio voglia di provare a
fare il contadino - c’è l’orto della nonna vicino casa; lasciando sguardi
indifferenti, dubbiosi, stupiti, ammirati - quasi fosse strano o da eroi
interessarsi delle condizioni di una parte (bella grande) della nostra Italia.
E
invece io volevo proprio vedere come sia abitare in terra di mafia, di
‘ndrangheta, essere fisicamente nella Locride, la terra con la più alta
concentrazione mafiosa d’Italia, volevo camminare per strada e vedere, perfettamente
integrati e camuffati tra la gente, i membri di qualche cosca; parlare con chi
è nato, cresciuto e quotidianamente convive con una presenza così ingombrante,
per il quale prendere una posizione e metterci la faccia non è facile come
giocare a fare gli eroi, perché nel momento in cui scegli da che parte stare
perdi chi non condivide la tua scelta, chi pensa sia meglio continuare a farsi
i fatti propri, inizi a rischiare.
Io e i
miei 35 compagni d’avventura siamo stati soddisfatti, di queste cose ne abbiamo
viste, e anche molte altre.
Siamo
stati all’interno di un palazzone confiscato alla cosca del paese, nostra base
operativa per una settimana. Lì abbiamo ascoltato la storia di Deborah
Cartisano, figlia di Lollò, fotografo che per non essersi piegato all’arroganza
mafiosa venne sequestrato nel luglio del 1993, la cui famiglia non seppe più nulla
per dieci anni, finché uno dei suoi carcerieri, toccato dai frequenti appelli
dei familiari, rivelò il luogo della sepoltura e finalmente l’Aspromonte rese
il corpo di chi aveva dato il suo esempio di coraggio. Ci siamo emozionati fra
quelle mura ascoltando le parole di una figlia ma anche di un imprenditore
edile, Gaetano Saffioti, che vive da dieci anni sotto scorta per aver mandato
in carcere 48 persone con l’accusa di estorsione. Da quel momento la sua vita e
quelle dei suoi familiari non sono state più le stesse. Lo definiscono un morto
che cammina, la sua impresa è blindata ed ha perso tutti i clienti della Piana
di Gioia Tauro, ora sopravvive con i lavori all’estero. Ma resta nella sua
terra, nella sua Calabria, non la vuole dare vinta alle cosche andandosene, perché
non è lui ad essere di troppo. E non è mancato l’apporto di uno “specialista
del settore”: Francesco Forgioni, ex presidente della Commissione parlamentare
antimafia.
E che
dire di quella sera in cui abbiamo allestito un piccolo spazio di legalità in
una piazzetta del paese, proiettando su un modesto schermo il film-documentario
“In un altro paese” di Alexander
Stille, ricostruzione storica della mafia siciliana dalla Prima Repubblica ai
giorni nostri. Eravamo davanti alla casa del boss del paese. Non è possibile descrivere l’emozione provata
nel vedere quelle immagini in quella terra. Veder scorrere le foto storiche delle
stragi di Capaci e via d’Amelio, sentire attraverso vecchi filmati le voci di
Falcone e Borsellino, le immagini del funerale di stato di Falcone a Palermo,
il grido straziante della vedova Schifani - moglie di un agente della scorta-,
il giudice Caponnetto che ha appena la forza di dire “E’ finito tutto”… E in
quel momento la mafia mi è apparsa come qualcosa di così serio, grande, grave,
fonte di troppo dolore e morte, da non poter credere possibile non sentirlo
come un proprio problema, vivere senza alcuna consapevolezza di questa piaga,
di questo buco nero che risucchia vite, speranze, risorse, futuro. Non poter
pensare che il solo non doverci fare i conti tutti i giorni possa legittimare a
ritenere che la cosa non ci riguardi, a lavarsene le mani.
Noi dal
canto nostro cercavamo di fare il possibile, nel nostro piccolo, in quello che sembrava
poco più che un gioco all’antimafia, in confronto ai rischi e ai sacrifici di
chi quotidianamente si confronta con tali realtà, per lavoro o dedizione o
perché ci si è nati e non si ha scelta, ma cercavamo di farlo nel modo
migliore. Ed è per questo che era con grande orgoglio che sfilavamo per le vie
del paese con le nostre magliette tutte uguali con la scritta “E!State Liberi”,
un serpentone rosso e rumoroso che di certo non passava inosservato, e non
aveva nessuna intenzione di farlo. Perché anche questo faceva parte del gioco,
far vedere alla gente che il progetto dei campi di volontariato sui beni
confiscati alla mafia attrae ragazzi da tutta Italia, che sentono questo
problema come proprio e vengono per dare il proprio contributo, anche solo
simbolico, anche solo un tendere la mano come a dire “Non siete soli, forza”. E
con quelle magliette rosse e quel monito “E!State Liberi” abbiamo cercato di
partecipare il più possibile alla vita pubblica, andando alle feste patronali,
alle processioni, ballando la pizzica fino a coinvolgere la gente stessa, fino
a sentirci calabresi, meridionali, italiani, nell’anima.
Certo,
non è facile cambiare una cultura, sarebbe semplicistico credere di arrivare in
un paese in cui le dinamiche son sempre state quelle e sperare nella svolta
improvvisa, nell’adesione immediata ed incondizionata ad un nuovo sistema di
valori, ad un nuovo modo di pensare e d’agire. Ed infatti la nostra dose di
sguardi indifferenti e diffidenti se andava bene, se non proprio di
occhiatacce, ce la siamo presa. Ed in una delle nostre parate serali, da parte
di una ragazza che avrebbe potuto essere una di noi per età, anche un sentito
augurio di morire bruciati vivi. Ma come si dice, sono i rischi del mestiere.
E poi
c’è da dire che vuoi un po’ d’incoscienza, un esser in fondo un po’ sognatori
che ci ha portato lì, vuoi l’effetto inebriante di un ideale condiviso, in
certi momenti ti senti in grado di fare qualsiasi cosa, la paura non esiste,
senti solo una grande forza, quella che dà la partecipazione attiva, l’andare
nella direzione di un valore.
Credo
fosse questo ad animarci quella sera, la sera dei “Cento Passi”. Dopo un pomeriggio di volantinaggio insoddisfacente
in un paesino, tentando di spiegare alla gente chi fossimo e cosa facessimo lì
con quelle maglie rosse, dopo un bilancio negativo del tentativo di sensibilizzare
di chi aveva evidentemente poca voglia di sensibilizzarsi, era arrivato il
momento di tornare al pulmino che ci avrebbe condotto al nostro alloggio. E
quale modo migliore di lasciare il paese, nonché tentativo estremo, che passare
dai giardini pubblici, in cui a quell’ora della sera si era riunita la
popolazione locale, cantando una canzone? La scelta è stata obbligata: “I cento passi” dei Modena City Ramblers,
colonna sonora dell’omonimo film su Peppino Impastato, giovane siciliano che si
impegnò nella lotta culturale e politica contro la mafia al punto da restarne
vittima. Non pensavamo di fare tanto, forse in quel momento non pensavamo
affatto. Ma è stato forse il momento più emozionante, sfilare tra la gente cantando
a squarciagola quelle parole, tentando di scandirle il più possibile in modo
che fosse inequivocabile chi fossimo noi con quelle magliette rosse, cosa
fossimo venuti a fare, in che cosa credessimo. Farlo capire in modo più
incisivo di quanto un timido volantinaggio non fosse riuscito a fare. E
guardare in faccia le persone mentre si avanzava, quasi a chiedere un
coinvolgimento. E tra lo stupore, il fastidio, il disprezzo, la sfida, che
emergevano… qualche sorriso, qualche battito di mani, qualche parola cantata
insieme a noi, cioè qualche segnale d’incoraggiamento, di partecipazione,
qualche volto “libero”. Come il nostro grido: appunto, “CALABRIA LIBERA!”, “ITALIA
LIBERA”.
E un
altro bel segnale di presa di coscienza lo si vede quando si entra in qualche
bar del paese di Polistena, dove un cartello vieta di offrire il caffè, non per
una bizzarra trovata, ma perché si è scelto di rinnegare quello che è un tipico
gesto mafioso (anche se questa non è la risposta data ufficialmente).
Ecco
allora un altro buon motivo per andare: per vedere da questi piccoli segnali che
qualcosa può cambiare, sciocchezze a primo impatto, in realtà piccole vittorie
se si pensa che una delle componenti di forza della mafia è il suo essere
radicata nella cultura, il suo essere una sottocultura. E allora è la sottocultura
mafiosa che va combattuta ed estirpata, partendo dalla gente, sostituendo l’omertà
e l’indifferenza alla denuncia e alla partecipazione attiva.
E
l’estirpare non è solo metaforico a Polistena, perché estirpare le erbacce
dalle pianticelle di peperoncino nei campi è una delle attività che si svolgono
durante la mattina, insieme a pelare melanzane. Il tutto nei 60 ettari di
terreno confiscati alla famiglia Piromalli (quella che controlla la Piana di
Gioia Tauro per intenderci) e gestiti ora dalla Cooperativa Sociale “Valle del
Marro - Libera Terra”, grazie alla legge 109/’96, che permette il riutilizzo
dei beni confiscati alle mafie per finalità sociali.
Ciò
dimostra che in quelle terre un altro tipo di lavoro è possibile, un lavoro
onesto, senza compromessi; il lavoro, quel valore al quale, fra tanti altri
possibili, i nostri padri costituenti hanno scelto di dare rilevanza, ponendolo
nel 1°comma del 1°articolo della nostra Costituzione, come valore su cui
fondare la Repubblica.
Andando
si può vedere con i propri occhi che quelli che erano terreni e strutture prima
abbandonati e legati a nomi mafiosi, ora sono produttivi e rimandano a
tutt’altro tipo di valori, emanano segnali di vita, di speranza, di futuro. Sarà
per questo che quell’olio, quel pesto di peperoncini, quelle melanzane prodotti
dalla cooperativa, hanno quel gusto così intenso. Perché hanno una storia
dietro, che parte da lontano ed è carica delle vicende di quei luoghi e di quei
protagonisti, di inevitabili difficoltà, di rischi quotidiani, ma anche di riscatto,
di fiducia. Ed è una soddisfazione vedere quei barattoli sugli scaffali di
supermercati e botteghe.
Ed
infine vale la pena di fare quest’esperienza per scoprire – qualora ce ne fosse
bisogno – che, oggi come non mai, dire “Sud” non equivale a dire mafia, perché
c’è tanto, tanto altro. C’è un mondo che affascina per la bellezza dei suoi
paesaggi, per i suoi colori e odori, per le tradizioni sedimentate nel tempo,
per lo sguardo fiero delle persone, per l’amore e l’attaccamento che nonostante
tutto hanno per la propria patria. Ci sono giornate in cui la terra è calda e
il sole cocente, in cui l’azzurro del mare e del cielo sono a dir poco
sfacciati, c’è la Piana di Gioia Tauro in lontananza che domina l’orizzonte a
perdita d’occhio e c’è il verde dell’Aspromonte, entrambi con le loro storie
cariche di dramma e di vite. Ci sono le tipiche feste patronali, tamurriate,
pizziche e tarantelle, che in calde notti d’estate rimandano ad un tempo
arcaico di miti e superstizione. E se devo scegliere un colore da associarvi scelgo
il rosso del peperoncino, bruciante al contatto come questa terra vissuta
davvero. Che brucia e che ti scotta, che ti prende, perché non gli puoi restare
indifferente, perché con tutte le sue contraddizioni, o gli volti le spalle o
te ne innamori.
Al di
là della generale espressione “Sud”, ogni luogo cela le sue peculiarità, il suo
dialetto ed i suoi costumi, ma mai un luogo in cui la disarmante ospitalità non
ti faccia sentire a casa il giorno dopo essere arrivato. Basta esserci con l’anima e ci
si troverà a dialogare con altre anime, molto simili alle nostre.
Ed
allora si può percepire che non c’è un Nord, un Sud ed un Centro, che basta un
nulla per sentirsi parte di uno stesso paese, vibrante della stessa storia,
degli stessi eventi, delle stesse crisi che chiedono quotidianamente lo sforzo
di tutti. E come è stato necessario uno sforzo comune per dare corpo a questa
nostra bella Italia, più di centocinquant’anni fa, ora ne serve un altro per
evitare che la forza lacerante delle mafie abbia il sopravvento. Perché le
mafie vivono, tra le altre cose, del senso di sfiducia dei cittadini nello Stato,
uno Stato che in certe realtà sembra essersi dimenticato di loro e non fa
abbastanza, a cui sostituire allora una sorta di Stato nello Stato, che a suo
modo dà lavoro, prospettive, senso d’identità. Ma non è quello il senso d’identità
che dobbiamo ricercare.
Partecipando
a quest’esperienza ho capito che la lotta alla mafia va combattuta su tanti
fronti e che in essa ciascuno ha il suo ruolo. Le istituzioni e la politica devono
ammantarsi di un velo di trasparenza, credibilità e serietà; mandare segnali
inequivocabili di condanna a logiche mafiose e subdole connivenze. Servono
leggi efficaci, a livello nazionale ed internazionale, di cui la 109/’96 è un
gran bell’esempio. Magistratura e forze dell’ordine devono essere messe nelle
condizioni di svolgere in modo ottimale il proprio lavoro e dal canto loro
devono assumersi pienamente l’onere e l’onore di combattere così nobile
battaglia. Le gerarchie ecclesiastiche non possono continuare a lasciare che
parroci di paese siano i principali esponenti della Chiesa a denunciare il
fenomeno e schierarsi apertamente contro le mafie. La scuola ed il mondo della
formazione hanno un compito fondamentale e delicatissimo nell’educare alla
legalità i cittadini di domani, il ricambio generazionale che deve essere
plasmato sulla base di altri valori.
E
allora quei cento passi, che erano la distanza che separava la casa di Peppino
Impastato da quella di Zu Tanu, il suo zio mafioso, possono diventare invece i
nostri cento passi verso un’altra Italia, un’Italia finalmente… libera.
A
nessuno si chiede di fare tutti e cento i passi da solo, ma a ciascuno si
chiede di farne uno in particolare, il più importante perché quello di
partenza, il più difficile perché quello del cambiamento interiore.
Irene Mazzufero
"La mafia non è affatto invicibile. E' un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà una anche una fine"
(Giovanni Falcone)